Storia dei vini di Chieri
La primitiva presenza di insediamenti di popoli liguri, lungo le sponde del Tanaro, ci fa presumere senza certezza che quando i romani occuparono il Monferrato, già esistesse la vite e furono proprio i romani a diffondere i vigneti.
La caduta dell'impero romano di occidente condusse anche il Monferrato al tragico e buio degrado dell'alto medioevo e la tradizione vitivinicola subì un arresto; fino a quando la necessità per le comunità religiose di disporre di vino per le celebrazioni liturgiche, suggerì a queste comunità di salvare molti vigneti.
I primi documenti inerenti alla viticoltura appaiono in questo periodo, non ancora sotto forma di studi ampelografici, bensì come statuti comunali, atti di trasferimento o di affitto di proprietà, donazioni, gabelle, sentenze di condanna. Nelle abbazie si tendeva ad un miglioramento genetico della vite: lo scambio di berbatelle fra un monastero e l'altro, quasi sempre concomitante con il trasferimento di monaci o abati, fece si che si potessero individuare i terreni più vocati per ciascun vitigno.
Dalle vigne di Santa Maria di Vezzolano pervennero ai terreni circostanti innumerevoli specie di vitigni, in massima parte assai pregiati.
In questo periodo i terreni a vocazione vinicola valevano circa sette volte il prezzo praticato per quelli destinati ad altre colture e il comune di Chieri dava pene severissime (quasi sempre corporali) per chi avesse danneggiato le vigne altrui.
La Malvasia
La Malvasia esistente fin dall'inizio della tradizione viticola monferrina. Gli statuti di Mondonio citano la Malvasia come presente sul territorio già nel 1468 e precisavano che per i ladri di tale uva l'ammenda dovesse essere doppia di quella praticata per altre qualità.
La Malvasia, vinificata dolce, era bevanda riservata ai ceti elevati, mentre il Grechetto o Malvasia amara era disponibile alle classi popolari nelle gerbe, specie di bettole dove affluivano i gondolieri, mercanti o pescatori.
Certo la patente di nobiltà che si venne a creare intorno a questo prestigioso vitigno fu certamente alimentata dalle concessioni particolari praticate nelle contrattazioni: a differenza della maggioranza delle uve quelle di Malvasia potevano fruire della legge della domanda e dell'offerta, consentendo ai migliori vignaioli notevoli guadagni.
La Freisa
Il primo cenno circa la presenza del vitigno Freisa lo rileviamo da una tariffa dei pedaggi praticati nel comune di Pancalieri nel 1517: in essa era indicato,il passaggio di carrate e sommate di Fresarum stimate con un prezzo doppio delle altre uve. Non è molto per stabilire una cospiqua presenza di "Freisa" nel territorio, ma quando apparve una pubblicazione che trattava delle uve presenti nel Monferrato e nell'Astigiano ogni perplessità scomparve.
La Freisa, come la Barbera, raggiunse il massimo della fortuna quando la Filossera si insinuò in Italia. Fortunatamente per la nostra regione, prima ancora di procedere a reimpilarsi su piede americano, si fecero impianti nuovi secondo le tecnologie già ben diffuse e la Freisa risultò fra quei vitigni privilegiati per robustezza, sanità, egualità della resa.
Il Freisa fu il vino del Re Vittorio Emanuele e la popolana Rosa Vercellans, monferrina e schietta, fu la sua donna per tutta la vita.
Vino della gioia semplice, riuniva intorno a se, sul calar della sera, la gente stanca del lavoro che, come un rito, avvicinava il bicchiere al padre, quando egli estraeva dal pozzo la bottiglia fresca e appannata.
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